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AVS Jugend al Monte Catino Dicembre 1958_Archivio foto Ulrich Koessler

Storie
di Maia Bassa

IL NOSTRO RIFUGIO AD AVELENGO OLTRE 60 ANNI FA

Ai tempi in cui era sotto la direzione di Helmut Rueb, l'Alpenvereinsjugend Meran – il settore giovanile della sezione Merano dell'AVS – contava moltissimi soci pieni di entusiasmo. Io ero uno di loro. All'epoca, noi giovani non avevamo accesso a chissà quale offerta per il tempo libero. C'erano i vigili del fuoco, la banda musicale, il club sportivo e la gioventù cattolica – e basta così. Per me e per qualche altro con i miei stessi gusti, l'Alpenvereinsjugend rappresentava esattamente ciò che stavamo cercando: sport, esperienza, avventura, libertà e cameratismo. In quegli anni, in inverno la sezione Merano dell'AVS prendeva in affitto dai contadini la malga Piffinger perché ne facessimo uso noi giovani.

Verso la fine dell'autunno, salivamo con il nostro accompagnatore al Hochganghaus (Casa del Valico), prendevamo cuscini e coperte e li portavamo al nostro rifugio, dove tornavamo una delle domeniche successive per preparare la legna. Con l'autorizzazione del guardaboschi, tagliavamo qualche alberello rinsecchito, raccoglievamo rami e sterpi e li ammucchiavamo nella stalla. Già questi preparativi erano un gran divertimento. Li affrontavamo con un tale fervore che una volta a uno di noi è scappata l'accetta, che ha trapassato la scarpa del povero Franzl e gli ha reciso il tendine di Achille. Lo abbiamo dovuto portare giù di peso fino a Falzeben e una volta lì nessuno si è preso la briga di cercare il colpevole. Un tempo era così.
Non appena ad alta quota cadeva la prima neve, andavamo su un sabato sera – in genere eravamo i soliti quattro o cinque, ma spesso andavo anche da solo – montavamo sull'ultima funivia in partenza da Maia Alta, salivamo ad Avelengo e da lì ci incamminavamo, provviste in spalla, verso Falzeben e il rifugio Zuegg. Spesso a Merano pioveva, ma sapevamo che lassù ci aspettava una fitta nevicata. Era parte dell'avventura. Ci mettevamo un paio d'ore per arrivare a destinazione. Per lo più, fino a Falzeben avevamo una pista da seguire; poi, la pista l'aprivamo noi. Arrivati al rifugio, cercavamo la chiave nascosta e accendevamo il fuoco, sia nella cucina che nella stufa. Non c'era corrente elettrica e l'acqua l'andavamo a prendere alla fonte lì davanti. Le stanze si riempivano di fumo perché il caminetto era ancora freddo, ci lacrimavano gli occhi, dovevamo spalancare porte e finestre. Ma andava bene così. L'importante era essere lontani dal lavoro di apprendista, lontani dalla città, finalmente liberi. A lume di candela, ci preparavamo una zuppa e un tè bollente – di alcol lassù non ne bevevamo mai –, cantavamo e facevamo grandi progetti. A mezzanotte passata, salivamo al piano di sopra e ci infilavamo sotto le coperte. Prima di addormentarci, decidevamo chi di noi dovesse alzarsi prima degli altri per accendere il fuoco e preparare il tè. La mattina dopo, ci mettevamo gli sci ai piedi e cominciavamo a fare su e giù per il ripido pendio presso il rifugio Zuegg.

All'epoca c'era solo uno skilift, che saliva al Pifinger Köpfl ed era gratuito – il lato positivo di non vedere neanche l'ombra di un gatto delle nevi da queste parti. È stato lassù che ho imparato a sciare, senza maestro e con sci di legno. All'inizio, mi limitavo a scendere poche centinaia di metri in linea retta. Per frenare, "scodinzolavo". Poi, mi sono cimentato nella tecnica dello spazzaneve. Per me come per i miei compagni, il ripido era una vera sfida. Osservavamo con ammirazione i meranesi del club sportivo, tutti sciatori provetti, e scommettevamo tra di noi su chi sarebbe stato in grado di scendere dritto come un fuso senza cadere. Una volta, ci ho rimesso uno sci, ma mai una gamba.
Spesso, la domenica venivano su al rifugio anche le ragazze, che ci preparavano un buon pranzetto a base di zuppa. Attorno a quei piatti fumanti sono nate amicizie, e in certi casi amori, che durano tutt'oggi. La sera pulivamo, riordinavamo e scrivevamo sul libro del rifugio, perché si sapesse chi vi era stato l'ultima volta. E poi arrivava il momento di tornare a casa.
Storie <br> di Maia Bassa
Storie <br> di Maia Bassa
Anche la lunga discesa del rientro era un'avventura: passavamo per una pista non preparata costeggiata da una recinzione i cui cancelli erano aperti e davano su una conca da affrontare in pendenza e poi contropendenza. Era un passaggio malfamato, che mieteva fior di vittime, soprattutto in termini di gambe rotte.

Per i malcapitati, la discesa finiva nella clinica traumatologica del dott. Kneringer, a Maia Alta; per gli altri, terminava presso la “Briefkastlbäuerin” davanti al Sulfner e alla stazione a monte della funivia. Poiché l'impianto poteva trasportare non più di sei–otto persone alla volta, si formava spesso una lunga coda di sciatori. I soliti meranesi aspettavano comodamente seduti nel bar lì accanto, finché il bigliettaio non li andava a chiamare. Squattrinati com'eravamo, noi al bar non ci andavamo mai, ma poco importava: avevamo alle spalle uno splendido fine settimana nel nostro rifugio e questo era tutto ciò che contava. Dalla stazione a valle ce ne tornavamo a casa a piedi con gli sci sulle spalle, pregustando già il nostro prossimo incontro.

Meraner Stadtanzeiger del 17 marzo 2022, Pagina 11, tema storico, di Ulrich Kössler
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